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VULNUS E VULNERABILITÀ: PER UNA PSICOLOGIA ATTIVA

Aggiornamento: 15 dic 2020

In questo articolo il nostro Jacopo Stringo affronta il tema del concetto di vulnerabilità in Psicologia, proponendone una definizione critica e sollevando il problema del dialogo tra le diverse discipline.

Un problema terminologico

Nelle scienze e nella divulgazione di massa, spesso alcuni termini raggiungono apici di utilizzo in brevissimo tempo, divenendo onnipresenti nel lessico di settore.


Sfortunatamente, questo comporta che talvolta si tramutino in termini sfocati, anche detti “ombrello”, che racchiudono pertanto una molteplicità di significati difficili da afferrare o triangolare a fini pratici. Altre volte – come nel caso del costrutto protagonista di questo articolo – la vaghezza del lemma dipende dalla enorme complessità che incarna; di conseguenza, invece di una struttura esplicativa ci si confronta con un’impalcatura di significati, spesso in complessa interazione tra loro.


Talvolta, sebbene difficili da esprimere in termini descrittivi, hanno l’apparenza (spesso ingannevole) di vocaboli di facile intuizione.


Tuttavia, nonostante la difficoltà “semantica”, è pure presente una difficoltà “tecnico-teorica”, di messa in pratica inter- e transdisciplinare di tali concetti, il cui uso è paradossalmente necessario.

In ciò, alcuni autori (Racine & Bracken-Roche, 2019; Bracken-Roche, Bell, Macdonald, & Racine, 2017) hanno sottolineato come, nella letteratura scientifica e accademica, la nozione di vulnerabilità sia estremamente vaga e con veramente poco consenso tra gli studiosi delle varie discipline. In una struttura normativa, ad esempio, la poca chiarezza sostanziale e categoriale del termine “vulnerabile” può portare ad una difficoltà nell’applicazione di detta norma, così come in altri vocabolari – nello specifico quello della psicologia – si ha una nozione sostanzialmente diversa (e divisa) dello stesso termine.

"La mia mente era uno specchio: vedeva quello che vedeva, sapeva quello che sapeva. […] Poi con il tempo sullo specchio si sono prodotte crepe profonde, che lasciavano entrare il mondo esterno, e lasciavano il mio mondo interiore guardare fuori. […] Uno specchio tutto crepato non riflette immagine alcuna – e questo è il silenzio della saggezza." [Edgar Lee Masters, Ernest Hyde]

Promuovere una cultura di approccio integrato significa anche spingere affinché il dialogo tra le discipline riesca a dare contezza di tutti gli iati semantici tra i vari termini tecnici e teorici, verso un modo di comunicazione multilaterale che non annulli le differenze, ma ne esalti le singole qualità e virtù.

Cosa significa vulnerabilità

Di cosa si parla, pertanto, quando si sente la parola vulnerabilità?


Non è scopo né possibile obiettivo di questo articolo dare una risposta a tale enorme questione – che se mette in crisi l’intero mondo accademico certo non può essere sciolta in poche righe; bensì, proporre una riflessione nata in me a cavallo del 2017/2018, durante la stesura della mia tesi triennale, e ancor più rafforzatasi con il passare del tempo, grazie anche al mio avvicinamento con la concezione integrata di benessere e cura.


Innanzitutto, perché la definizione di questo costrutto dovrebbe riguardare la psicologia?

Perché non solamente il diritto o la sociologia, ad esempio, per l’istituzione di categorie protette bisognose di interventi di una scienza della salute?


Ebbene, in quanto disciplina attiva non solo nella prevenzione della malattia, ma anche nella promozione della salute, la psicologia non solo dovrebbe a mio parere partecipare nel fare chiarezza, ma anche nel tracciare percorsi esplorativi dei limiti e delle contingenze proprie di questo costrutto, orientando assieme alle altre discipline coinvolte il percorso semantico e definitorio.


Come ben esposto da Paride Braibanti (2015),

«la comprensione del modo in cui le persone valutano e fronteggiano le richieste che l’ambiente pone loro è obiettivo prioritario per una scienza che ha come finalità vincere la malattia e migliorare le condizioni di salute».

Prioritario per la materia in sé, ma anche per le altre discipline che compartecipano al suo verificarsi e al suo dispiegarsi nella realtà. In ciò, l’esperienza clinica dei professionisti che toccano con mano la crudezza del reale si dimostra sostanziale: dando pertanto un significato attuale alla parola “tecnico” associato a “teorico”, una téchne che si basa sulla perizia professionale ma che non si riduce ad essa.


In secondo luogo, in quanto disciplina coinvolta nella “comprensione del modo in cui le persone valutano e fronteggiano le richieste che l’ambiente pone loro” (Cfr. supra), essa può avere un inestimabile e prezioso valore anche riflessivo, nel porre in luce dinamiche e idiosincrasie individuali che possono (o no) rappresentare ugualmente la collettività.


Come ci ricorda Elena Bougleux (2006), attraverso i canali della ricerca scientifica o della produzione di sapere a partire dalla riflessione sull’esperienza clinica, anche quando astratti o teorici, vengono messi in moto meccanismi che modificano l’immaginario collettivo.


Come conseguenza di ciò vi sono esiti, implicazioni ed effetti che inevitabilmente coinvolgono tutti (Ibid). Basti vedere ad esempio la ridefinizione di un concetto come quello di “resilienza”, che da termine puramente fisico ha subito una ridefinizione a cascata non solo nella comunicazione e nella semantica della parola, ma anche nella sua ermeneutica.


Proprio per quest’ultimo punto, la questione della risignificazione o della ricerca di significati complessi per dare risposte a una realtà complessa dovrebbe vedere un contributo attivo di una scienza intersezionale e propriamente umana come la psicologia.


Tornando dunque alla domanda principale su cosa sia la vulnerabilità, la risposta che ho provato a dare tenta – senza alcuna velleità d’essere esaustiva né approfondita – di far da ponte tra la psicologia, il diritto e l’antropologia. Spesso i termini “vulnerabile”, “fragile”, “debole” e “vittima” sono associati a definire individui, fasce di popolazione o categorie particolarmente soggetti a uno o più svantaggi o danni, specifici o aspecifici.


Tuttavia, sotto questi termini che spesso vengono racchiusi dentro l’ombrello principale di vulnerabilità vi sono interessanti spunti di riflessione.


Andando un po’ controcorrente partirò dall’ultimo termine, essendo forse la sua definizione quella madre, che ha fatto partire le mie riflessioni successive: nella Decisione Quadro del Consiglio dell’Unione Europea del 15 marzo 2001 si definisce vittima

«la persona fisica che ha subito un pregiudizio, anche fisico o mentale, sofferenze psichiche, danni materiali causati direttamente da atti o omissioni»

mentre la Direttiva 2012/29/CE del Parlamento Europeo e del Consiglio del 25 ottobre 2012 amplia concedendo lo status anche ai famigliari di detta persona. Ora, penso che su quella frase (in particolar modo sulla definizione di “atti o omissioni”) la psicologia potrebbe spendere fiumi di parole.




Vittime, fragilità e vulnerabilità

Trovo proficuo disgiungere la figura della vittima dal costrutto di vulnerabilità in senso stretto: in accordo con alcuni autori (Blum, McNeely, & Nonnemaker, 2002), vulnerabilità è infatti considerabile come un processo di interazione tra diversi fattori, siano essi sociali, biologici o culturali.


Credo sia ravvisabile un possibile parallelismo con quello che nella scienza vittimologica è chiamato rischio differenziale, ovvero una concezione multidimensionale dell’interazione tra fattori, in cui la vulnerabilità è scomposta in più concause ad essa associati che contribuiscono nella costruzione del rischio (Zuffranieri & Amistà, 2010).


Nonostante ciò, la vittima si configura come una figura ben specifica, ovvero di colui o colei ha già subito un danno di sorta o, come ben specificato dalla Direttiva 2012/29/CE, come un famigliare della stessa.


Un individuo può però essere vulnerabile indipendentemente dal fattore espositivo pregresso, pertanto è essenziale considerare nella definizione vulnerabilità una dimensionalità più ampia e al contempo più definita strutturata su diversi fattori predisponenti al danno.


Si può quindi già da ora ravvisare una duplice temporalità: un fattore di rischio pregresso (vulnerabilità) e un evento espositivo di cui si è sfortunatamente oggetto (vittima).


Qui subentra pertanto una ulteriore dimensione, che è dunque la fragilità: dopo essere stati colpiti da un evento traumatico, che in qualche modo ha avuto delle ripercussioni più o meno drammatiche sull’individuo, il soggetto ne risulta in qualche modo “indebolito”, fragilizzato. Qui certamente l’esperienza clinica di molti può dare contezza di come l’essere già stato colpito da alcune situazioni contestuali o ambientali può rappresentare un incrementato rischio per il ripetersi di tali eventi o il deteriorarsi degli stessi.


Parlando di terminologie e semantiche neutrali se non comuni alle discipline coinvolte, potremmo riconoscere questi tre momenti della vita quotidiana di ognuno di noi e dei nostri cari. In ciò, la disciplina forense può ravvisare diverse dimensioni di debolezza: sociale, normativa, contestuale, categoriale. Addentrarsi in questo ambito richiederebbe molto più spazio di quanto io non ne abbia.


Ma proprio in virtù di questi dialoghi transdisciplinari è possibile ravvisare la necessità di integrare i saperi di ciascun settore, in un’ottica di promozione e di sistema.


Considerare l’esistenza di queste condizioni definite e differenziate non significa compartimentare l’esistenza del singolo; al contrario, significa riconsiderare la complessità insita nella individualità e nella impossibilità di riduzionismi forse facili, talvolta necessari, ma decisamente parziali.

In conclusione, tutti noi siamo esposti alla vulnerabilità e alla fragilità nelle nostre vite, siano esse delle persone a noi prossime oppure le nostre proprie; esse sono parte integrante dell’esistenza umana.


Definire in maniera univoca cosa siano, alla luce di tutte queste seppur sintetiche, ristrette e personali riflessioni, spero sarà considerato anche dal lettore una questione non di poco conto, in cui investire le proprie considerazioni.



Autore

Dott. Jacopo Stringo Dottore in Psicologia Clinica e della Salute





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Bibliografia

  • Direttiva del Parlamento Europeo e del Consiglio del 25 ottobre 2012 (2012/29/CE)

  • Decisione Quadro del Consiglio dell’Unione Europea del 15 marzo 2001 (2001-220-GAI)

  • Blum, R.W., McNeely, C. & Nonnemaker, J. (2002). Vulnerability, risk, and protection. Journal of Adolescent Health. 31(1):28-39. DOI: 10.1016/S1054-139X(02)00411-1.

  • Bougleux E. (2006). Costruzioni dello spaziotempo. Etnografia in un centro di ricerca sulla fisica gravitazionale. Bergamo University Press, Bergamo.

  • Bracken-Roche, D., Bell, E., Macdonald, M.E., & Racine, E. (2017). The concept of ‘vulnerability’ in research ethics: an in-depth analysis of policies and guidelines. Health Research Policy and Systems. 15:8. DOI: 10.1186/s12961-016-0164-6

  • Masters, E.L. (1992). Antologia di Spoon River. Arnoldo Mondadori, Milano.

  • Paride, P. (2015). Ripensare la salute. Per un riposizionamento critico nella psicologia della salute. Franco Angeli, Milano.

  • Racine, E., & Bracken-Roche, D. (2019). Enriching the concept of vulnerability in research ethics: An integrative and functional account. Bioethics. 33(1):19-34. DOI: 10.1111/bioe.12471

  • Zuffranieri M., Amistà E. (2010). La perizia vittimologica in un’ottica pragmatica, in Gulotta G. (a cura di). Mente, società e diritto. Giuffrè Editore, Milano.

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